Fenomenologia di Giuseppe Conte

Giuseppe Conte, l’uomo che quando lo guardi devi far mente locale due secondi per ricordarti chi diamine sia è, contro ogni logica, il Presidente del Consiglio. Tirato fuori dal cilindro come Papa di transizione, è riuscito a rimanere in sella nonostante il cambio di maggioranza con l’italianissima mossa alla Marescialla (nel senso di Badoglio), ossia voltando agilmente le spalle all’alleato divenuto improvvisamente scomodo. Stretto nel consueto abitino slim fit color blu Tecnocasa, con pettinatura da foto di barberia d’altri tempi (Riccardino, fammi quel taglio là, come quello della tivvì) e di color corvino sospetto di ritocchino, però ritocchino maschile, civettuolo ma mai effeminato (Avvoca’, sentite a me, sui lati lasciamoli grigi, che fa tanto Cler Ghèbol), l’uomo sembra sempre in bilico tra la consapevolezza della sua precarietà e più che legittime alzate di testa, durante le quali, però, gli scappa la frizione. Risponde alle domande della giornalista con un formalmente corretto ma bruttissimo se lei avrà un domani responsabilità di governo, in luogo del più signorile e adatto se lei un domani dovesse avere, dimostrando un temperamento più adatto a un ospite da talk show che a un capo di governo. Ma tant’è: l’uomo ha un rapporto complicato con la lingua. In uno dei suoi memorabili messaggi alla Nazione -per inciso, talmente memorabili che non ci ricordiamo quale, esattamente- il Nostro riesce, in sessanta secondi, a pronunciare per ben cinque volte il termine fase (nella prima fase, in questa fase, nella fase due, la fase che attraversiamo ecc.), dimostrando poca dimestichezza o magari, chissà, antiche ruggini, con il volume dei sinonimi di Zanichelli. Sarà l’emozione, ma Egli si trova spesso in difficoltà anche con le frasi idiomatiche: dice non è ora il momento di additare nemici, quando in genere l’idioma, se proprio deve additare, quando lo fa, suole farlo coi colpevoli. In compenso, il nostro Statista dimostra una certa elasticità nei toni dell’eloquio: passa dalla mamma colpevolizzatrice (se vuoi bene all’Italia fai questo e non fare quello) allo studente discolo che promette di riparare a un brutto voto in un prossimo, imprecisato futuro (dovremo, faremo, cercheremo). In impeti revivalistici, riesuma antiche frasi care alla sinistra impapocchiatrice (nella misura in cui), mischiandole sapientemente al linguaggio dei giornalisti dell’Intrepido degli anni ’60 e, parlando dei calciatori, non esita a definirli i nostri beniamini. Riesce in una sola frase a unire Jacques de La Palice (l’unica via d’uscita è non ammalarsi, dopo il buio viene la luce), e allo stesso tempo scuotendo il ciuffo e con gli occhi gonfi per il troppo lavoro, evoca storici e antichi sanatori, e tu lo guardi e vedi Kafka nel sanatorio di Kierling, e non il disastro dei nostri ospedali. Tuttavia, il buon Conte (due secondi: Conte chi? Ah, già) è anche uomo moderno e confidente nelle umane sorti, soprattutto quando ci ricorda che gli scienziati e gli esperti ci dicono, e lì sfodera al contempo lo sguardo di chi ha nel portafogli il santino di Padre Pio, vuoi per le origini foggiane, vuoi perché che ne sai, male non fa, e poi se no la Cei si arrabbia, mai sia.

Insomma Giuseppe Conte (due secondi: Conte chi? Ah, già), checché ne dicano i detrattori, è l’arciitaliano, l’uomo che fa palpitare i cuori delle divorziate agée. E tra un palpito e l’altro non ci accorgeremo quasi di essere ammalati e, infine, morti.



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