Twitter e la Sindrome del Chiavettiere a Cuba.

Non è che puoi vivere nel 2013 e prescindere dai social network: tanto varrebbe ignorare il motore a scoppio. Dice, ma fa male, altera i rapporti, crea realtà virtuali che non corrispondono a quella reale. Innanzitutto anche il motore a scoppio fa male, se vieni investito da un suv, ma è santo e benedetto se fa funzionare l’ambulanza che ti porta in ospedale quando ti sei appena strafacciato col mezzo. Per questo rispetto gli intellettuali, i giornalisti, gli scrittori, che frequentano i social network. Ovviamente, la fa pa padrone Twitter, per due motivi: perché bisogna scrivere poco (è gente che non ha idee, e quando le ha se le vende, non regalano un cazzo a nessuno), e perché Twitter sembra più una cattedra che un bar. Hanno l’impressione di mettersi lì e declamare meravigliose poesie, mentre le genti, in basso, urlano capitano mio capitano.

Sono peccati veniali, ci passiamo sopra, in fondo chissene.

Il problema sorge quando si accorgono che i social network sono il regno dell’a tu per tu , ti permettono di metterti alla stesso livello di chiunque, e questo li manda in crisi profonda. Capisco bannare chi ti insulta: nel mio piccolo lo faccio anch’io, è una questione di educazione. Mai mi sono permesso di andare a criticare, figuriamoci a insultare, qualcuno sulla sua bacheca o sul suo account Twitter: neanche con gente che disprezzo e ai quali auguro sinceramente una brutta morte. Quindi, se uno ti insulta e basta, se ne deve andare affanculo coi cafoni pari suoi.

Il problema è che questi non sopportano manco le critiche sensate, espresse educatamente, e perdono le staffe anche di fronte allo sfottò. E qui scatta il figurone di niente. Perché io lo voglio pure capire che quando spari una banalità in tv o sul tuo giornale c’è sempre il collega o il critico con cui hai cenato la sera prima pronto a dire che invece hai cacato una perla di saggezza, e un pubblico di cretini pronto ad applaudire a comando. Invece sui social network, oltre al cafone che ti insulta perché si diverte a insultare quelli famosi, trovi pure quello in gamba (ripeto, non parlo di me, io per mia natura non l’ho mai fatto e mai lo farò) che ti prende per il culo col battutone del secolo e ti mette, con garbo ed eleganza, a figura di merda.

E allora giù lacrime, incazzature, recriminazioni, accuse: la consapevolezza che se sei milioni di persone comprano il tuo libro e ti leccano il culo, ce ne sono dodici che a ragion veduta ti schifano. Tutto normale, direi. Se non fosse che, come dice Obama, quando fai quel mestiere non puoi pretendere di incazzarti. Ti devi stare, come si dice dalle parti mie. Non piangere, non accusare, non ti lamentare: piegatela a libretto e vai avanti.

Certo, lo capisco, vivete in un mondo chiuso, impermeabile alle critiche vere, e ve ne siete andati di culo. Non fatico a capirlo. Molti di voi sono dei celardi, gente che pensa di potersi prendere delle rivincite, ma attenti, perché quello che la vita ti ha tolto prima poi non c’è verso di riaverlo: magari ti regala altro, ma se da ragazzino ti pigliavano per culo, è difficile che la gente ti veda come un bucchiniello solo perché sei famoso. E’ vero, lo sei, molto ti è concesso, ma non dovunque. Al bar ti pigliavano per culo trent’anni fa e ti ci pigliano anche adesso, a dispetto dei tuoi soldi. magari se vai nei salotti bene ti adorano, ma al vecchio bar scamette pigliavi e scamette piglierai. Goditi il tuo piccolo paradiso recintato, non è così male, e scappa dalla ricerca del consenso a tutti i costi, è una cosa pericolosa.

Si chiama Sindrome del chiavettiere a Cuba: è lì, che puoi fare il playboy, che perfino tu scopi con una diversa al giorno, ma guai a pensare di mastriare pure in Italia, perché appena provi a rifarlo al Bacchanalia prendi gli stessi due di picche di prima.

Non ti chiedere perché: resta sereno a Cuba, e se scendi al Baccha ordina un caffè e poi sparisci subito, che quella la vita vera è un’altra cosa.



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